La Commissione Grandi Rischi? Non ha imparato dai propri errori

La Commissione Grandi Rischi? Non ha imparato dai propri errori

Dopo la conclusione delle operazioni di recupero dei corpi dalla valanga di Farindola in Abruzzo c’è ancora la rabbia e lo smarrimento di chi ha subito lutti orribili (e forse evitabili) sotto le macerie dell’hotel Rigopiano. C’è ancora l’indignazione e l’incredulità di molti al pensiero che le strade si siano riempite di neve fino a restare bloccate senza che si riuscisse a intervenire prima. Ma dopo le parole del presidente della Grandi Rischi Sergio Bertolucci (e nonostante i chiarimenti forniti dal Dipartimento ormai a polemiche e timori esplosi) la sensazione più amara, almeno per chi come segue questi temi, è quella di annotare come alcune istituzioni non abbiano fatto un centimetro in avanti rispetto a quel 31 marzo 2009 quando una riunione della Commissione Grandi Rischi convocata d’urgenza a L’Aquila (e non a Roma) diede il via alla mesta vicenda sfociata nelle due sentenze che condannarono la cattiva comunicazione dei rischi (non la scienza, si badi bene). Gli scienziati non seppero comunicare adeguatamente, efficacemente le dinamiche della crosta terrestre e i rischi collegati alla sua attività e anzi in alcuni casi fecero di tutto per rassicurare la popolazione terrorizzata da mesi di scosse. In molti casi le persone si fidarono e morirono sotto la scossa delle 3.32 del 6 aprile.

Rassicurare anzichè spiegare. Altri errori hanno caratterizzato la comunicazione degli autorevoli scienziati: le parole usate dal presidente della Commissione Grandi Rischi si sono fatte notare per un utilizzo a dir poco “disinvolto” e lontano dal ruolo di grande responsabilità che è quello di fornire indicazioni precise e tecniche rispetto alle quali la cittadinanza sia messa nelle condizioni di fare scelte che riguardano la propria incolumità o comprendere i provvedimenti emessi dalle autorità come i sindaci. Parole usate, ci si consenta, con una superficialità inadeguata al calibro di chi le ha pronunciate, inadeguate a essere usate pubblicamente in questa società dell’informazione che diffonde in tempo reale i messaggi a milioni di persone. Le parole del presidente della Commissione Grandi Rischi hanno dunque riportato alla luce il problema della comunicazione dei rischi nell’ottica della prevenzione. Quello che voleva essere un semplice esempio si è trasformato in un enorme boomerang e in un attimo il tempo si è annullato: come se, dal 2009 a oggi, la Commissione Grandi Rischi non avesse imparato dai propri errori.

Senza entrare nelle analisi puntuali credo che la riflessione da fare sia che gli scienziati, anche i più autorevoli, devono approcciarsi finalmente alla comunicazione e accettarne la sua importanza. I dati che maneggiano sono i veri strumenti con i queli descrivere efficacemente i fenomeni e aiutare le persone, non va dato per scontato. I giornalisti, da che mondo è mondo, sono solo uno strumento, ma a studiare i fenomeni sono principalmente loro. Un giornalista competente può fare molto per la divulgazione di temi complessi quali sono i rischi naturali e antropici, ma gli scienziati hanno il dovere di instaurare con i cronisti e gli addetti stampa che lavorano nelle istituzioni da loro presiedute un dialogo professionale costruttivo. Un meccanismo che, una volta avviato, può solo generare processi comunicativi sempre più efficaci.

Ai giornalisti infine, una categoria troppe volte tacciata di superficialità ma mai come in questi casi responsabile di una informazione puntuale, affidabile e (azzarderei) persino “educativa”, il compito di essere il più possibile informati sulle realtà di cui si stanno occupando e in grado di valutare quanto per primi apprendono. Perchè i disastri naturali e gli incidenti industriali, gli attentati terroristici, le emergenze e le calamità di ogni genere sono diventati temi di cui si parla ogni giorno e che destano grande attenzione. E chi le racconta ha il dovere professionale e morale di comprenderle fino in fondo e raccontarle con attenzione.

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