Terremoto Friuli: 40 anni dopo il racconto degli scienziati che registrarono la scossa

L'Ingv ricorda il terremoto del 1976 con la testimonianza dei due scienziati che registrarono la scossa per primi presso l'osservatorio di Monte Porzio Catone in provincia di Roma

Terremoto Friuli: 40 anni dopo il racconto degli scienziati che registrarono la scossa

L’auditorium dell’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia era pieno di scienziati e ricercatori lo scorso sei maggio. Geologi e vulcanologi italiani si sono fermati per una mattina per celebrare i 40 anni dalla calamità che fece da spartiacque nella storia della geofisica e della Protezione civile italiana: il terremoto del Friuli Venezia Giulia. In videoconferenza con le sedi Ingv di Palermo, Milano e Napoli e in un ponte ideale con Gemona (dove in quel momento le massime autorità dello Stato facevano memoria di quei terribili fatti) a Roma si è ricordato il terremoto dal punto di vista delle scienze della terra, in un’atmosfera raccolta e a tratti un po’ familiare. Nel 1976 l’istituto (guidato dall’aprile scorso dal professor Carlo Doglioni) si chiamava Ing (Istituto nazionale di geofisica) e la rete sismica italiana era decisamente meno articolata e tecnologicamente sviluppata di oggi.

Nella sua introduzione ai lavori il presidente Doglioni ha sottolineato che “fare memoria di questi tragici terremoti che possono essere così drammatici è un’occasione per tenere alta l’attenzione sull’importanza che ha lo studio di questi eventi e sulla loro prevenzione”. “Attività di questo tipo – ha aggiunto – aiutano anche la ricerca e di fatto tutto il Paese”. Quanto al sisma del 1976 ha sottolineato che “è stato un terremoto dal quale abbiamo iniziato a imparare tante cose” e ha concluso ringraziando le ideatrici dell’evento, Silvia Mattoni e Giuliana D’Addenzio.

Il sisma si rivelò disastroso: sappiamo oggi che la scossa principale di magnitudo 6.4 Richter avvenne a 6,5 chilometri di profondità, con un’area di rottura misurata pari a 18 chilometri per 14 e uno spostamento finale della faglia di 54 centimetri. Le scosse furono avvertite in gran parte del Centro-nord Italia fino a Roma, propagandosi maggiormente lo sciame sismico verso ovest e nord-ovest. Allora però a documentare per primi e non senza difficoltà l’accaduto furono due giovani geofisici dell’Istituto: Rodolfo Console e Calvino Gasparini.

Furono loro, questi due trentenni assunti da qualche anno, a calcolare i primissimi dati tecnici sulla scossa del 6 maggio e a comunicarli alla stampa nazionale e al ministero degli Interni. Dunque quella notte, dopo le primissime notizie sul sisma, i due scienziati si precipitarono nelle sale dell’Osservatorio centrale di Monte Porzio Catone, alle porte di Roma, e si ritrovarono di fronte alle terribili evidenze del sisma friulano: il loro racconto ci riporta proprio dentro quei giorni irripetibili.

“La nostra fu un’esperienza traumatizzante” ricorda Gasparini. Tutto era cominciato all’ora di cena con una telefonata in famiglia: “Mia sorella mi chiamò da Milano alle nove di sera dicendo di aver sentito un terremoto. Mi venne in mente che se l’avevano avvertito là poteva essere stato in val Brembana. Partì il giro di telefonate che confermavano l’accaduto, ma ancora non c’erano dati certi”. Dunque, ha spiegato Gasparini “andammo a Monteporzio Catone: lì ci ritrovammo con un paio di tecnici a leggere i dati. Allora bisognava essere bravi, perchè si lavorava con i fogli fotografici che andavano tolti dalla macchina e sviluppati. Bisognava analizzare i dati sul foglio fotografico ed essere attenti perchè le registrazioni delle scosse successive, nel fare il cambio dei fogli, si potevano perdere: per questo finiva che bisognava spostare un solo foglio alla volta e in questa operazione perdemmo un po’ di tempo nel calcolare i dati. Comunque – continua Gasparini – con i soli numeri di Monteporzio e in base all’angolo di emergenza stabilimmo l’epicentro del terremoto: chi oggi lavora in sala operativa si metterebbe le mani nei capelli se ancora lavorassimo così! Purtroppo non potevamo calcolare diversamente i valori, ma quel dato elaborato in quel modo lo comunicammo all’Ansa, al resto della stampa e soprattutto al ministero degli Interni”.

I due giovani scienziati non credettero ai loro occhi: i sismografi parlavano di un terremoto posizionato a 440 chilometri di distanza da Monteporzio Catone, in direzione nord-nord-est e a una profondità di circa 25 chilometri. “Questa è l’informazione ufficiale che partì allora – ricorda Gasparini – Calcolata la magnitudo, venne fuori un terremoto catastrofico per cui decidemmo di chiamare il ministero”. Il racconto di Gasparini entra nel dettaglio, sino alle telefonate riservate con i vertici dello Stato, riuscendo a restituire il senso di ignoto di fronte a cui si trovarono geologi e politici in quella che ancora non era la Protezione civile italiana: “Dopo aver comunicato l’evento – continua Gasparini – ci telefonò il prefetto Spirito: allora la Protezione civile non esisteva ma al ministero degli Interni c’era una sala operativa dei Vigili del fuoco con all’interno due pompieri. In quella circostanza il prefetto mi chiese: “Ma che significa “catastrofico”? Cominciai a spiegare che significava che più del 50 per cento delle case poteva essere crollato, che forse c’erano state delle frane che avevano bloccato le strade, insomma un quadro difficile”.

Ma la situazione era ancora confusa, e le autorità impreparate a gestire un’emergenza del genere. “Dopo poco mi richiamarono dicendo: “Ci avete dato come posizione 440 km a nord ovest, noi abbiamo chiamato i pompieri di quelle parti, ma per loro è tutto tranquillo: lì nessuno si lamenta, si lamentano da Bologna e da altre parti semmai”. Gli rispondiamo che bisognerebbe andare a verificare di persona, ma ci dicono che a quell’ora l’elicottero non era disponibile per un sorvolo. Verso l’una di notte arrivò persino la telefonata dell’allora ministro dell’Interno, Francesco Cossiga. Mi disse: “Ma lei è sicuro di quello che sta affermando? Rispondo che “gli strumenti questo dicono e questo vi abbiamo riportato: se voi non siete riusciti a trovare informazioni non so cosa dirvi”. Allora il ministro Cossiga mi mise in contatto con il sottosegretario. E lì iniziammo a conoscere Giuseppe Zamberletti, il fondatore della Protezione civile italiana.

Quando poi dal giorno successivo arrivammo in Friuli, cercammo di rilevare i danni: dal territorio non ci potè arrivare alcun aiuto perchè sindaci e comuni avevano ben altro a cui pensare tanto che del questionario, la cosiddetta “schedina macrosismica”, ci tornarono appena due o tre risposte in tutto. Dovemmo fare da soli una ricerca accurata. E fotografammo cose come una cisterna dell’acqua di una stazione ferroviaria di quelle a fungo di cemento armato completamente tranciata alla base e caduta su un fianco, muri di palazzi abbattutti dai due lati, e altre immagini che mostravano gravi danni agli edifici storici. L’indagine non fu facile da realizzare: le aree più seriamente colpite avevano un cordone sanitario anti-tifico che ci impedì a lungo di entrare. E poi tutte le squadre di operatori intervenuti nei primi dieci giorni avevano abbattuto tantissimi edifici, e questo rendeva più difficile capire cosa fosse veramente accaduto a livello sismico”.

I ricordi e le emozioni si rincorrono nella sala, così come il desiderio di raccontare quanto la scienza che studia i movimenti della terra sia profondamente cambiate e cresciuta negli ultimi 40 anni, in conoscenze e tecnologie. Dalle immagini di quel 1976, con i giovani ricercatori dai baffi lunghi, con le camicie colorate e i pantaloni a zampa, si è passati alle diapositive tecniche e ai grafici per spiegare i passi avanti fatti dalla scienza. In sala gli interventi dei dirigenti dell’Istituto e di chi con la vicenda del Friuli mantiene ancora oggi un legame personale. E’ il caso di Alberto Michelini, direttore del Centro nazionale terremoti che ha illustrato la realtà delle reti sismiche italiane e riassunto così il suo rapporto con il sisma del ’76: “Quella notte ero a Trieste, dove sono nato: il giorno dopo avevo un compito in classe a scuola, e ricordo perfettamente quel che accadde”.

“Penso che in 40 anni si sono fatti dei passi enormi sia dal punto di vista strumentale sia dal punto di vista delle conoscenze: allora sarebbe stato difficilissimo solo ipotizzare che saremmo arrivati a questo punto”. Insieme a lui i contributi del direttore della struttura terremoti Claudio Chiarabba, del dirigente di ricerca Luca Valensise sulla pericolosità sismica dell’area e di Angelo De Santis dirigente della Unità di ricerce geo-marine. Le immagini dei documenti d’epoca, dei macchinari, delle stazioni mobili, dei volti di allora che hanno fatto la storia della geofisica hanno continuato per tutta la mattina a raccontare il Friuli come terra dei terremoti e oggi punta avanzata in Italia dal punto di vista della prevenzione.

L’ingv arrivò in Friuli il 7 maggio: da Roma partirono immediatamente una stazione mobile e altri apparati tecnici. “Con essa potemmo rilevare l’ipocentro di molti eventi” – ricorda nel suo intervento Rodolfo Console – in seguito partecipammo a una serie di convegni importanti. Tra il terremoto di maggio e quello di settembre ci fu a strasburgo un incontro tra nomi che oggi sono famosi in sismologia e che collaborarono alla determinazione degli ipocentri delle scosse, riuniti sotto la sigla di Roxanne” “. Una serie di stazioni appositamente installate sul territorio rilevavano le varie scosse, i cui dati furono riuniti in un numero speciale del bollettino sismico. “I nostri scienziati pubblicarono i risultati delle loro rilevazioni in documenti e convegni di livello europeo contribuendo ad accrescere le conoscenze sui terremoti e la loro localizzazione – conclude Console – L’Istituto nazionale di Geofisica seguì da vicino tutte le fasi del post terremoto grazie allo studio del quale cominciò a prendere forma per la prima volta l’attuale macchina della Protezione civile”.

Francesco Unali

(pubblicato su “La protezione civile italiana”)

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