Per il neo Capo del Dipartimento nazionale Curcio viene “prima l’Istituzione Protezione civile, poi l’uomo che “pro-tempore” la guida e la rappresenta. Priorità assoluta il lavoro sui territori, al fianco di tutte le componenti del Sistema.
Nei giorni in cui tutti vorrebbero conoscere meglio la vita e la storia del nuovo Capo della protezione civile Fabrizio Curcio, questo ingegnere romano di 48 anni e quasi da dieci al Dipartimento nazionale da noi intervistato a 100 giorni dall’avvio del suo incarico, spiazza il suo pubblico con messaggi concreti che richiamano all’essenza della cultura di protezione civile. Sposta l’attenzione dal singolo al Sistema e apre il confronto a tutto campo sulle sfide che attendono la Protezione civile italiana e il Dipartimento nazionale. Dal 2 aprile 2015 al vertice di via Ulpiano, voluto dal presidente del consiglio Renzi, Curcio è una scelta interna che unisce alla preparazione tecnica e alla conoscenza delle problematiche di settore un profilo operativo di grande esperienza e una visione di insieme sul sistema. Curcio è stato scelto anche per i suoi modi sobri e capaci di confrontarsi ai massimi livelli così come in grado di stare vicino ai volontari e alla popolazione nel corso di tante emergenze. Lo abbiamo incontrato nel suo ufficio nel centro di Roma.
D: Ingegner Curcio, il testo della nuova legge di riordino della protezione civile è stato licenziato a luglio ed è pronto ad andare all’esame delle Camere. Cosa ne pensa?
R: Il percorso è stato ben avviato. Il testo prodotto fin qui ci soddisfa perchè tiene conto di alcuni disallineamenti oggi presenti nel sistema e individua punti cardine sui quali incentrare i decreti legislativi che saranno fondamentali per la riuscita della legge. Voglio ringraziare per questo i sottoscrittori della bozza che hanno fatto un lavoro certosino e di grande attenzione con la commissione Ambiente della Camera, oltre a decine di audizioni con enti e amministrazioni. Credo che le norme che regolano la protezione civile non debbano essere frutto di blitz, ma della maggiore concertazione possibile perchè in questo campo le regole o sono corrispondenti alla capacità di un territorio di metterle in atto, o rimangono norme che non verranno attuate.
D: Tra i cardini della nuova legge vi è una rinnovata partecipazione dei cittadini e il coinvolgimento delle comunità. Cosa significa aver inserito così chiaramente questo aspetto in una legge di riordino?
R: Significa aver ribadito la catena di sussidiarietà che va dal cittadino alla massima espressione di protezione civile che è il presidente del consiglio dei ministri. Tutto ciò funziona se noi riusciremo a dare centralità al cittadino e alla comunità. Perchè quando noi tocchiamo temi come cultura di protezione civile, consapevolezza, rapporto col territorio, significa rivolgersi a cittadino e comunità. Per questo ci è sembrato utile e giusto ribadire che le istituzioni devono fare il proprio e il cittadino, a sua volta, deve assumersi la sua responsabilità per esempio nell’adottare corretti comportamenti.
D: Con il suo arrivo al vertice il Dipartimento vedrà a breve una revisione dell’organigramma: quali sono oggi i punti di forza e quali le criticità nell’organizzazione del Sistema di protezione civile?
R: Negli ultimi anni il sistema di protezione civile ha subito modifiche normative importanti, ma il suo campo di azione è ben definito. Su alcune parti è un sistema assolutamente pronto, come nelle emergenze più disastrose; su altri fronti in questo momento non abbiamo grandi risorse, e in più alcune procedure attualmente in essere non aiutano. Ad oggi, ad esempio, il sistema fatica a seguire la normativa vigente in certi tipi di emergenze “border line” come le alluvioni, in cui attualmente la dichiarazione di stato di emergenza arriva dopo settimane, se non mesi, dopo l’evento creando una sorta di indeterminazione riguardo a chi sta operando, che non sa se, mentre sta intervenendo, possa contare o no sugli strumenti emergenziali. E’ uno dei temi su cui stiamo lavorando con la nuova legge delega.
D: E per gli altri punti fondamentali come previsione e prevenzione?
R: Compito del Dipartimento è la prevenzione non strutturale, cioè piani e procedure. Siamo convinti però che la prevenzione sia un tutt’uno tra parte non strutturale e lavori strutturali e quindi stiamo lavorando con ottimi risultati con la Struttura di missione contro il dissesto idrogeologico e per lo sviluppo delle infrastrutture idriche istituita presso la Presidenza del Consiglio per mettere a sistema le due “metà”: quella che porta un territorio a dotarsi di strutture per la mitigazione del rischio nel medio lungo termine e quella non strutturale dei piani di protezione civile che ovviamente è più immediata da realizzare. Le due parti devono essere assolutamente integrate: perchè il cittadino ha diritto a una risposta completa da parte dello Stato.
D: Quale è il contributo del Dipartimento a tutto questo?
R:La pianificazione va fatta sia a livello nazionale che locale. Sul nazionale abbiamo progetti importanti come il piano Vesuvio, il piano Flegrei, il programma nazionale del rischio sismico e non solo, ed è in corso la campagna antincendi boschivi. Ma se a scrivere questi piani è solo il Dipartimento nazionale si rischia di creare documenti privi di utilità. I piani devono nascere dal territorio, non possono essere documenti fatti da qualcuno a Roma. Soprattutto il piano non bisogna aspettarlo dall’alto: su questo concetto spesso c’è ancora un’idea un po’ assistenzialista nel Paese.
La sussidiarietà non è un processo che va dal livello nazionale a quello comunale, ma l’opposto: quando un comune non ce la fa, si rivolge a un livello che ha maggiori disponibilità. E questo vale sulla pianificazione e ancora di più sulla gestione emergenziale. Non a caso, ultimamente, si sta battendo molto sul termine “Resilienza”: la comunità deve essere in grado da sola di avere la prima reazione perchè solo così il cittadino ha più possibilità di salvaguardarsi. In questo senso stiamo facendo un grande lavoro di comunicazione e informazione fornendo le linee generali sul comportamento. La filiera, poi, è composta in maniera sussidiaria. Un esempio di questo è la campagna “Io non rischio”, promossa dal Dipartimento ma fatta da volontari formati che conoscono le problematiche di protezione civile e sono soprattutto volontari di prossimità, del posto.
D: Una protezione civile che si fa sul territorio a partire dalle sue componenti più vicine ai cittadini come sindaci e volontari?
Certo, e su questo vorrei ricordare, a proposito di piani locali, che quelli comunali, secondo i dati forniti dalle Regioni, oggi mancano in oltre il 20 per cento dei municipi italiani. Ma anche dove esistono, spesso non sono conosciuti dalla popolazione o non sono aggiornati: bisogna che questa sia una priorità del sistema, affinchè poi diventi priorità del cittadino e quindi della politica locale. Il fattore culturale e la sensibilizzazione dei sindaci, secondo noi, sono strettamente dipendenti dalla sensibilità del cittadino. Cioè il sindaco si deve fare interprete delle esigenze delle persone, ma questo accadrà solo quando ogni primo cittadino riceverà chiaramente una domanda di sicurezza. Come Dipartimento abbiamo il compito di stimolare comportamenti, di fare in modo che il cittadino vada a “bussare” alla porta del Comune non solo per chiedere servizi efficienti su rifiuti, tasse ecc, ma anche sulla propria sicurezza, perchè sente questo tema come una sua necessità e un suo diritto.
D: Facciamo un punto sul Programma nazionale del rischio sismico.
R: Come dipartimento ci abbiamo lavorato molto, ma anche qui il discorso della sussidiarietà è essenziale.Come Dipartimento abbiamo portato avanti la parte nazionale del Programma, mentre sulla parte locale non abbiamo ancora ricevuto dalle Regioni la risposta che abbiamo richiesto. A un anno dall’emanazione di questa norma infatti ho sollecitato tutte le regioni ma nessuna ha formalizzato questo tipo di informazioni, ad oggi. Voglio sottolineare l’importanza di questi atti, perchè in un Paese sismico come il nostro meriterebbero un’attenzione maggiore.
D: Un altro progetto fondamentale per il Paese è il Sistema Metereologico Nazionale Distribuito: abbiamo finalmente il meteo unico nazionale atteso da anni?
D: Sì, siamo in chiusura, direi che siamo all’ultimo miglio: sta procedendo l’iter propedeutico per la successiva emanazione del regolamento. Per creare una struttura del genere infatti abbiamo avuto bisogno di una lunga e importante fase di accordo tra tutti i soggetti competenti del “Sistema Paese”. Vorrei ringraziare tutti sia nel mondo civile che in quello militare: ora esiste un testo condiviso che sta passando i vagli amministrativi che porteranno alla sua emanazione.
D: In dettaglio come sarà fatto il nuovo servizio meteo nazionale?
R: Il testo attuale verrà sicuramente limato in qualche piccolo dettaglio: non vorrei anticipare contenuti che potrebbero subire modifiche. Però posso dire che la struttura risponde alla logica dell’omogeneizzazione: quindi tutto ciò che il Paese, a livello istituzionale, può esprimere in ambito di meteorologia viene inserito in una struttura unica e quindi finalmente anche l’Italia sarà meglio strutturata per essere efficacemente rappresentata a livello internazionale a intervenire su questi temi. Tra gli aspetti più rilevanti credo vada segnalata l’ottimizzazione delle risorse con l’utilizzo condiviso e razionale di tutte le tecnologie esistenti in ambito nazionale, regionale e militare.
D: I centri funzionali delle Regioni resteranno protagonisti della fase previsionale in protezione civile?
C: Certamente. Dall’anno scorso tutte le regioni hanno finalmente un centro funzionale attivo e sono autonome nella valutazione dell’impatto delle previsioni meteo sul territorio, quindi nella definizione quotidiana dei livelli di criticità territoriali. Sulla parte meteo non tutte le regioni sono autonome, quindi non hanno tutte questa capacità, e questo servizio nazionale meteo distribuito avrà anche il compito di omogeneizzare il sistema per tutte le regioni, proseguendo e rafforzando, in particolare l’attività di sussidiarietà nei confronti dei territori non ancora totalmente strutturati.
D: Protezione civile e Legge Delrio sul riordino delle province: avete riscontrato criticità nella attuazione della riforma amministrativa?
R: La mancata definizione da parte di molte Regioni delle funzionida attribuire ai nuovi enti di livello provinciale sta creando delle incognite nell’attività sui territori: molte regioni infatti avevano delegato negli anni le province in materia di protezione civile e quindi la loro ridefinizione ha creato un vulnus. Se da un lato la legge 100 ribadisce il ruolo dei prefetti nella fase emergenziale, è nella pianificazione quando la legge fa riferimento alle Province che possono nascere incertezze sul “chi deve fare cosa” a seguito della riforma. Noi auspichiamo che le deleghe Regioni-Area vasta vengano colmate al più presto. Certamente in questi mesi sul territorio si sono trovate soluzioni tampone, ma è evidente che hanno vita abbastanza breve e c’è la necessità che queste deleghe, laddove non sono state date, vengano girate in maniera chiara.
D: L’ordinanza dell’8 giugno 2015 elenca tutte le dichiarazioni di emergenza recenti ricordando come in Italia si sia verificata “una successione particolarmente intensa di eventi meteorologici di eccezionale intensità”. Il Paese sempre è più esposto ai rischi: l’efficienza negli interventi è prioritaria, ma va conciliata con la disponibilità di risorse economiche.
R: Dal 1 maggio 2013 a metà luglio 2015 sono stati dichiarati 37 stati emergenziali e questi hanno creato un intervento economico intorno ai 500 milioni di euro messi sul piatto dal governo: questo è lo stato dell’arte, anche se si dice sempre che “non ci sono risorse”. Certamente sono fondi che riguardano la prima fase emergenziale, quella destinata alla risposta alla popolazione, all’eliminazione del rischio residuo e alle attività più urgenti. Su un altro fronte sono le risorse riguardanti la quantificazione del danno, perchè qui ci si muove sul danno pubblico, sul patrimonio pubblico, su quello privato di tipo economico ed è chiaro che quando si va a quantificare questo danno su 37 stati di emergenza l’ordine di grandezza aumenta enormemente e, in assenza di risorse, serve un grande lavoro dei commissari per decidere su cosa è necessario e possibile investire, e dove no.
D: Altra novità recente è la legge sugli ecoreati con la quale per la prima volta sono nate fattispecie di reato di rilievo penale come il “disastro ambientale”, o la “offesa alla pubblica incolumità”. Esistono rischi per chi opera in protezione civile?
R: Nella prima fase della gestione emergenziale possono esserci dei rischi: una delle classiche situazioni riguarda lo smaltimento delle macerie per i terremoti, o dei fanghi dopo le alluvioni e in generale tutti gli scarti prodotti da ogni disastro. Stiamo lavorando su questi aspetti: non vorremmo utilizzare in emergenza deroghe alla legge vigente, ma poter disporre di una normativa “positiva” che preveda la possibilità di gestire senza deroghe le attività in emergenza che riguardino anche questi tipi di materiali.
D: E’ un problema che riscontrate anche su altre tematiche di protezione civile?
R: Purtroppo sì. Questa problematica noi l’abbiamo su questa fattispecie ma anche su molte altre. Un esempio tipico è quello della capacità del sistema di acquisire servizi in emergenza. Mentre per i lavori pubblici c’è la cosiddetta “somma urgenza” e quindi esiste una fattispecie che consente normativamente di fare un lavoro in emergenza secondo precisi parametri e requisiti, per l’acquisizione dei servizi non è così. Ci ritroviamo ogni volta, in emergenza, a dover derogare all’acquisizione dei servizi: nostro obiettivo futuro è ottenere un vero e proprio “emergency procurement” per evitare le continue deroghe.
D: Tornando sul fronte prevenzione un tema al centro del dibattito è quello dell’utilizzo dei nuovi strumenti di comunicazione, sia in tempo di pace sia in emergenza. Il Dipartimento se ne sta occupando ma ancora non ha una sua comunicazione “social”: a che punto di maturazione è il processo?
Noi siamo assolutamente favorevoli all’apertura della protezione civile alle nuove tecnologie di comunicazione. Ma dobbiamo utilizzarle in maniera intelligente, sapendo che se apriamo un canale di comunicazione quel percorso deve essere garantito nella sua continuità, efficienza ed efficacia: altrimenti si corre il rischio di confondere il cittadino. Su questi temi abbiamo organizzato convegni, fatto dei gruppi di lavoro, ce ne stiamo occupando insieme alle Regioni: come Dipartimento vogliamo entrare in questo mondo nel momento in cui è chiaro a tutti quale comunicazione il Dipartimento stesso può e deve fornire, rispettando sempre la logica della sussidiarietà. Ma il lavoro che stiamo portando avanti guarda all’intero sistema e gli esiti del percorso #SocialProCiv lo dimostrano.
D: La questione dunque si pone anche a livello comunale?
Certamente. Molti comuni provano a utilizzare i social network per comunicare la protezione civile a livello locale. Se però non sono in grado di garantire queste informazioni anche durante l’emergenza
i comuni devono dirlo chiaramente, affinchè il cittadino non resti confuso aspettando determinate informazioni. Quelle stesse informazioni in emergenza giungeranno attraverso altri canali. L’importante è essere chiari, rendendo note anche le risorse che ogni istituzione è in grado di mettere in campo in questo settore
il meccanismo ti si ritorce contro perchè il cittadino aspetta dal comune quell’informazione in emergenza ma non la può ottenere perchè il sindaco non ha le risorse umane o le professionalità per conoscere in tempo reale una determinata informazione utile.
D: Recentemente lei ha detto: “La protezione civile deve essere uno stile di vita”. Cosa significa?
C: Significa avere la consapevolezza e l’educazione dei comportamenti nel quotidiano. “Stile di vita” significa avere chiare nelle nostre azioni quelle misure di prevenzione di base che sono necessarie per la tutela della nostra vita. Come dire: un adulto non metterebbe mai due dita nella presa di corrente, alla stessa maniera se c’è un fiume in piena non devi andare a recuperare il motorino mentre l’acqua esce. Non devi nemmeno metterti su un ponte con un fiume che sta sfiorando l’arcata del ponte: la protezione civile è, di fatto, uno stile di vita.
D: Dunque la Protezione civile è un po’ anche nella sua vita privata come modo di vivere le cose?
R: Non c’è dubbio: chi fa questo lavoro, nel Dipartimento come nelle altre strutture operative, sa che nel momento in cui scatta un’emergenza ha un atteggiamento che è certamente istituzionale ma dal quale nascono sempre rapporti umani e di solidarietà verso chi è in difficoltà. Tutto ciò rende il nostro Paese unico per il grandissimo affetto e rispetto che abbiamo incontrato in ogni emergenza. E questo è un lato molto bello del nostro mestiere.
D: Per lei che ne ha fatto l’impegno di una vita, cos’è l’emergenza?
R: Nell’emergenza c’è quel contatto umano che è lo stimolo del lavoro di una vita. L’emergenza è il momento in cui si sostanziano difficoltà, in cui l’istituzione si pone a fianco delle persone in difficoltà. Mantenere l’equilibrio tra il desiderio di aiutare chi è in difficoltà e il ruolo dell’istituzione non è semplice. La relazione con la cittadinanza in emergenza è un’esperienza incredibile. Porta un arricchimento umano e professionale impagabile che è la benzina del nostro lavoro. Ed è il momento in cui uno raccoglie il frutto di ciò che ha seminato.
Francesco Unali
(pubblicato su “La Protezione civile italiana” di agosto 2015)
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